Soichiro Honda: una storia non ufficiale

Honda: una storia non ufficiale degli inizi

Questo breve documento non vuole essere una storia completa e dettagliata della Honda Motor Co ma piuttosto una sorta di tributo agli uomini ed alle macchine che hanno contributo a creare il più grande produttore di motocicli della nostra era. E’ una storia fatta di ingegno, spirito di sacrificio, innovazione, dedizione al lavoro ed anche tanti azzardi.

Ma come recita un proverbio “solo che rischia vince”.

 

Honda Soichiro: i primi anni

Honda Soichiro (1) nacque nella Prefettura di Shizuoka nel 1906, figlio di Honda Gihei, fabbro e meccanico di biciclette.

Fin dalla più tenera età era affascinato da aeroplani e automobili e, finita la scuola dell’obbligo, decise di cercare lavoro in quel settore che tanto amava. Non trovando disponibili posti di lavoro nella prefettura di residenza, nel 1922, all’età di quindici anni, riuscì a farsi assumere come apprendista meccanico presso l’officina di riparazione automobili Art Shokai di Hongo, Tokyo.

Nel primo anno Honda non imparò nulla poiché il suo datore di lavoro gli affidò una mansione radicalmente diversa da quella che il giovane si aspettava: fare da baby sitter al giovanissimo figlioletto.

Tutto cambiò col catastrofico Grande Terremoto del Kanto del 1° Settembre 1923: tutti i dipendenti abbandonarono la Art Shokai per tornare alle proprie famiglie colla sola eccezione di Honda e dell’apprendista più anziano. Questo diede l’occasione ad Honda di ricevere una rapida e completa istruzione nel campo della meccanica automobilistica.

Nel 1926, all’età di vent’anni, Honda venne coscritto nelle Forze Armate ma, essendo risultato daltonico alla visita di leva, venne riformato e ritornò subito a lavorare presso la Art Shokai. Dopo sei anni di apprendistato ricevette finalmente il brevetto di mastro meccanico nel 1928. Honda si era già guadagnato una certa fama partecipando ad alcune corse automobilistiche come pilota per Art Shokai quindi il suo datore di lavoro, Sakakibara Yuzo, lo autorizzò ad aprire un’autofficina ad Hamamatsu utilizzando il nome Art Shokai (2).

Negli anni seguenti Honda continuò la sua doppia carriera di meccanico e corridore fino al 7° Giugno 1936. In questa data, durante la corsa inagurale del circuito di Tamagawa, Honda rimase gravemente ferito in un incidente. Durante la convalescenza Honda decise di “fare il gran passo” e di iniziare la produzione di componenti per automobili. Dopo aver considerato diversi prodotti decise di dedicarsi alla produzione di segmenti (o fasce elastiche) per pistoni per due motivi: il primo è che il suo vecchio datore di lavoro, Sakakibara-san (3), aveva fabbricato per un breve periodo segmenti presso la Art Shokai coll’assistenza dei suoi apprendisti. Il secondo è che in quel periodo i segmenti avevano raggiunto valutazioni al peso superiori a quelle dell’argento.

Tutti, amici, potenziali investitori, apprendisti, tentarono di dissuadere Honda da questa idea: la sua Art Shokai era comunque un’attività ben avviata che gli dava di che vivere e di che finanziare la sua passione per le corse. Perché rischiare? Tutti meno un conoscente, Kato Shichiro, che vide buone potenzialità nel progetto e prestò ad Honda il denaro necessario per l’acquisto dei macchinari.

Nel 1937 venne così fondata la Tokai Seiki (Compagnia Macchinari di Precisione del Mare Orientale), con sede nella stessa officina Art Shokai di Hamamatsu, che rimase comunque in attività. Kato venne nominato presidente della Tokai Seiki mentre Honda riparava automobili e motociclette di giorno e di notte sperimentava vari metodi per la produzione di segmenti.

Ishida Taizo, un responsabile acquisti della Toyota, chiese alla Tokai Seiki di inviare un lotto di cinquanta segmenti per valutare l’acquisto di successive partite. Il risultato: un disastro su tutti i fronti. Dei cinquanta segmenti solo tre passarono il controllo qualità. Toyota scelse altri fornitori e Honda passò settimane insonni continuando a sperimentare ma ottenendo sempre gli stessi catastrofici risultati.

Honda capì che per la prima volta in vita sua aveva bisogno di studiare le scienze. Chiese quindi aiuto al Professor Fuji Yushinobu del locale Istituto Tecnico, che lo mise in contatto con un docente universitario, il Professor Takashi Tashiro. Questi analizzò uno dei segmenti e comunicò ad Honda che il motivo era un’insufficiente elasticità dovuta all’uso di una lega d’acciaio povera di silicio.

Questa rivelazione colpì Honda come un fulmine: non solo si iscrisse ad una scuola tecnica serale per lavoratori, ma seguì anche le lezioni del Professor Takashi.

Per due anni, fino al tardo 1939, Honda studiava di notte e lavorava di giorno.

A questo punto, avendo “sbloccato” il segreto della realizzazione di segmenti d’alta qualità si presentò un altro problema.

I macchinari che Honda e Kato avevano acquistato erano sufficienti per produzioni in piccola serie, non certo le enormi quantità che Toyota o gli altri grandi costruttori di motori richiedevano.

Grazie all’aiuto ancora una volta del Professor Takashi, Honda potè usufruire della collaborazione di numerose università giapponesi e questo aiuto si dimostrò fondamentale per la realizzazione dei rivoluzionari macchinari che Honda aveva concepito per la produzione di massa.

Nel 1941 Tokai Seiki divenne un fornitore Toyota, un grande riconoscimento nel Giappone dell’epoca. Ma non era tutto. Durante le sue visite presso le università del Giappone Honda aveva conosciuto Takeshima Hiroshi della Nakajima (un grande produttore di aeroplani e motori per la Marina Imperiale Giapponese(4)). Nakajima produceva il motore Sakae (Prosperità) installato sul celebre caccia Mitsubishi A6M Zero da poco entrato in servizio ed aveva bisogno di un fornitore in grado di fornire parti di alta qualità in gran numero. Takeshima non ebbe dubbi sulla scelta del fornitore.

L’8 Dicembre 1941, in seguito allo scoppio delle ostilità con gli Stati Uniti, il Governo Militare nipponico applicò la Legge di Mobilitazione Generale Nazionale del 1938, che dava ai grandi fornitori delle Forze Armate (come appunto Toyota e Nakajima) forti sussidi e sgravi fiscali per la produzione di armamenti. Con i fondi sbloccati da questa legge Toyota acquistò il 40% di Tokai Seiki e ne aumentò enormemente il capitale. Honda venne quindi “degradato” da presidente (aveva infatti preso il posto di Kato-san nel 1939) a direttore anziano: una demozione che accolse con entusiasmo perché gli consentiva di passare tutto il suo tempo in officina ed al tavolo di progettazione, liberandolo dal peso della gestione finanziaria ed amministrativa dell’azienda.

Honda Soichiro negli anni ’60

Una delle sue prime “rivoluzioni” fu la creazione di una linea di produzione ad elevata automazione che potesse essere usata dal Corpo di Lavoro Volontario, costituito quasi interamente da giovani donne prive di esperienza nel settore metalmeccanico, senza però diminuire la qualità dei prodotti,  qualcosa che ritornerà in seguito.

Nel 1943 Honda-san venne chiamato da Nippon Gakki (ora nota come Yamaha Motor Co) come consulente per risolvere un delicato problema. Nippon Gakki aveva ricevuto dalla Marina Imperiale l’incarico di realizzare eliche per i bombardieri Mitsubishi allora in servizio. Queste eliche erano basate su un disegno Hamilton Standard acquistato dagli USA prima della guerra: il governo americano aveva però vietato l’esportazione delle avanzate tecnologie di taglio utilizzate da Hamilton Standard, essenziali per la produzione di massa. Le eliche erano quindi realizzate con tecniche altamente inefficienti che allungavano il tempo di realizzazione in modo enorme.

Honda in due mesi mise a punto una macchina da taglio che consentiva di ridurre il tempo di lavorazione per un elica da sei giorni a soli trenta minuti, lo stesso impiegato dalla Hamilton Standard e dai suoi contraenti negli USA. Per questo ricevette una lettera di ringraziamento dalla Marina Imperiale (l’equivalente di una decorazione per i civili) e il suo nome venne pubblicato sui quotidiani a fianco di quello degli eroi di guerra.

All’inizio del 1944 Tokai Seiki operava due grandi fabbriche: una a Yamashita ed una ad Iwata e produceva un’ampia gamma di componentistica per motori.

Ma la guerra era oramai persa: la scarsità di materiali costringeva le linee di produzione a lunghe pause forzate. La fabbrica di Yamashita venne distrutta da bombardieri USA provenienti da Saipan mentre quella di Iwata venne gravemente danneggiata da Grande Terremoto di Mikawa il 13 gennaio 1945. I macchinari vennero recuperati e riparati ma per Tokai Senki era la fine della corsa.

Note:

[typography font=”Cantarell” size=”10″ size_format=”px”]1)       In questo documento utilizzo la prassi giapponese di porre prima il cognome e poi il nome
2)       Honda venne “adottato” da Sakakibara in base al sistema di relazioni familiari e di affari noto come ie, abolito nel 1947. Visto che Sakakibara non poteva lasciare nulla di materiale ad Honda dal momento che aveva eredi diretti, gli concesse l’uso del nome della sua ben nota officina come ausilio pubblicitario.
3)       -san è un suffisso onorifico traducibile come “signore” o “signora” a seconda del sesso.
4)       Marina ed Esercito Imperiale Giapponese avevano, di fatto, un peso sulle politiche nazionali ben superiore a quello che si potrebbe immaginare, spesso al di sopra degli stessi ministri imperiali. La Marina Imperiale era tanto potente che ,oltre al ruolo che possiamo ben immaginare, possedeva intere fabbriche ed era una forza armata autosufficiente, completa di reparti di terra, artiglieria ed aviazione. Va ricordato anche che tra Marina ed Esercito non correva buon sangue ed erano spesso ai ferri corti: l’Esercito riteneva la Marina una sorta di “club” per altezzosi ed arroganti membri dell’alta società e tecnocrati. La Marina ricambiava il sentimento considerando l’Esercito una sorta di “ultimo rifugio” per i reietti della società.[/typography]

 

Interludio: il Giappone postbellico e la motocicletta

E’ qui necessario aprire una parentesi sul Giappone del periodo immediatamente successivo alla Guerra per comprendere appieno il clima in cui Honda Soichiro si trovò ad operare durante i primi anni della sua attività di produttore di motocicli.

In seguito alla resa incondizionata da parte del Giappone, l’Armata d’Occupazione (GHQ), comandata inizialmente dal Generale Douglas MacArthur, ebbe il completo controllo sul Giappone tra il 1945 ed il 1952, anno della ratificazione del Trattato di Pace di Los Angeles. Questo controllo si estendeva a tutti i rami della politica e dell’economia.

Il Giappone postbellico, proprio come l’Italia e la Germania in Europa, aveva un disperato bisogno di mezzi di trasporto. Le politiche del GHQ erano però estremamente rigide ed irrazionali da questo punto di vista: a causa dei bombardamenti alleati il Giappone aveva perso quasi tutta la sua rete ferroviaria. Per muovere merci e persone c’era bisogno di autocarri ed automobili. Il GHQ però impose un limite alla produzione mensile di soli 1500 autocarri e 350 automobili: assolutamente insufficiente a coprire il disperato bisogno di mobilità.

Il Giappone prebellico aveva una buona industria motociclistica: il marchio più famoso era Rikuo (Re della Strada), che negli anni ’30 aveva acquistato progetti e macchinari da Harley Davidson (1) per la produzione della VL1200 con motore a valvole laterali. Rikuo era il risultato di una curiosa “joint venture” tra l’Esercito Imperiale e la Sankyo, azienda farmaceutica tuttora attiva. Il GHQ consentì a Rikuo di continuare la produzione della Tipo 97 (la versione militarizzata della VL1200). Il problema era che la Tipo 97 era estremamente costosa e pochi potevano permettersela: enti governativi, agenzie di stampa, medici di aree rurali.

GHQ aveva anche pubblicato una lista di “prodotti consentiti”, ovvero sia prodotti che le aziende potevano produrre senza dovere fare richesta alle autorità d’occupazione: si trattava perlopiù di materiali d’uso quotidiano o senza immediata applicazione bellica come pentolame, strumenti musicali, macchine fotografiche.

Molte aziende che non potevano più produrre, ad esempio, componentistica per aeroplani (completamente proibita dal GHQ) esaminarono questi “prodotti consentiti” per trovare una nuova ragione d’esistere. Ad esempio la Nippon Kogaku KK (Compagnia Giapponese Ingegneria Ottica) che durante la guerra aveva prodotto telemetri e apparati di mira per bombardieri e navi da guerra formò dei comitati per investigare a quali “prodotti consentiti” dedicarsi. Non è sorpresa che si decise per le macchine fotografiche, che potevano fare uso della loro vasta esperienza in campo delle lenti. La compagnia, rinominata Nikon, è ora nota in tutto il mondo ed è parte del keirestu (2) Mitsubishi.

Uno dei “prodotti consentiti” cui le aziende si rivolsero furono le motociclette leggere, ed in particolare le biciclette motorizzate, economiche e facili da realizzare. A questo punto bisogna aprire una parentesi.

Mitsubishi nel 1946 aveva fatto richiesta al GHQ per essere autorizzata a produrre scooter, nella fattispecie copie dei modelli Powell americani, di cui avevano comprato alcuni esemplari sul mercato nero a scopo di “clonazione”. Mitsubishi era uno dei grandi zaibatsu (3) prebellici e come tale oggetto di “sorveglianza speciale” da parte delle forze d’occupazione e quindi l’autorizzazione venne negata. Il motivo merita di essere qui riportato per dare un’idea della mentalità del GHQ: negli USA gli scooter erano considerati giocattoli e beni superflui, quindi Mitsubishi non aveva alcun motivo di produrre un “bene di lusso” in un paese praticamente alla fame. Fortunatamente il governo di Washington dopo poco diede ordine di “allentare la presa” sull’economia giapponese (si temeva infatti che un Giappone impoverito e in cerca di rivalsa entrasse nell’orbita sovietica) e Mitsubishi potè mettere in commercio il suo primo scooter. Venduto col marchio Fuso (ora noto per gli ottimi autocarri) e chiamato C10 Silver Pigeon, fu uno dei grandi successi del Giappone dell’immediato Dopoguerra, anche grazie al patrocinio del Principe Ereditario (ora Imperatore) Akihito, da sempre un forte sostenitore dell’industria motociclistica giapponese. Mitsubishi ne cessò la produzione nel 1964 per dedicarsi alle automobili dopo averne prodotti più di 500.000 esemplari in varie versioni.

La linea di assemblaggio dello scooter Rabbit presso lo stabilimento di Futoda della Fuji Heavy Industries. Da una buona idea delle condizioni di lavoro presso le industrie motociclistiche giapponesi (e non solo) dell’immediato Dopoguerra.

In seguito a questo relativo progressivo e cauto “rilassamento” le industrie giapponesi poterono finalmente avere accesso a quelle materie prime di cui avevano disperatamente bisogno per riprendere una produzione su larga scala.

 

Ma il vero cambiamento avvenne nel 1950. In questo anno due avvenimenti segnarono particolarmente il futuro dell’industria motociclistica giapponese.

Il primo fu una revisione del sistema delle patenti di guida: in base a queste nuove norme le biciclette motorizzate potevano ora essere condotte da chiunque avesse compiuto 14 anni senza conseguire alcuna patente: il limite di cilindrata era di 60cc per i due tempi e 90cc per i quattro tempi. Nel 1956 questa normativa venne ulteriormente modificata: a 14 anni si poteva condurre qualunque bicicletta motorizzata fino a 50cc, a 16 questo limite di cilindrata si alzava fino a 125cc. Inoltre tutti i motocicli fino a 125cc erano ora considerati biciclette motorizzate, indipendentemente da altri fattori. A 16 anni si poteva inoltre ottenere una delle due patenti per motocicli: la prima valida per cilindrate da 126cc a 250cc e la seconda valida per cilindrate da 251cc a 1500cc.

Questo significa che un adulto poteva condurre qualsiasi motociclo fino a 125cc (fosse esso a due, tre o quattro ruote) senza bisogno di alcun documento di guida.

Il secondo, più drammatico, fu lo scoppio della Guerra di Corea. Il GHQ fu costretto ad eliminare rapidamente la quasi totalità delle restrizioni finora implementate perché le Nazioni Unite avevano disperatamente bisogno dell’industria giapponese per combattere la guerra. In tutto l’Estremo Oriente solo il Giappone aveva la base industriale per produrre coperte, combustibili, autocarri e parti di ricambio ncessari allo sforzo bellico.

Questo iniziò un “mini boom” economico in Giappone di cui avremo occasione di parlare, “mini boom” che si esaurirà coll’Armistizio del 1953.

Note:

[typography font=”Cantarell” size=”10″ size_format=”px”]1)Nel periodo tra le due guerre il Giappone era il primo mercato d’esportazione per Harley Davidson. Il direttore della filiale giapponese, Alfred Childs, inventò l’attuale sistema di assistenza postvendita, comprensivo di garanzia, officine con personale altamente qualificato ed addestrato direttamente da tecnici della casa e un sistema ordine ricambi razionalizzato.
2)Keiretsu viene spesso impropriamente tradotto come “gruppo”, anche se forse il termine più adatto è “conglomerato”. Si tratta di una tipica caratteristica dell’economia giapponese ed è costituito da un gruppo di società fortemente legate tra loro da controllo azionario incrociato, accordi informali e, soprattutto, dall’uso di una banca principale che costituisce il “cuore” stesso del keiretsu. Al momento ne sono identificati sei principali: Mitsubishi, Fuyo, DKB, Mitsui, Sanwa e Sumitomo. Una società può essere membro di più keiretsu (ad esempio Hitachi è membro dei keiretsu DKB, Fuyo e Sanwa) o essere indipendente ma con “rapporti di amicizia” con uno o più keiretsu (ad esempio Honda ha forti legami con Mitsubishi e Toyota con Mitsui). Esistono poi i cosidetti keiretsu verticali, generalmente costutiti da un grande gruppo (ad esempio Toyota) e dai suoi contraenti e fornitori da esso direttamente o indirettamente controllati.
3)Zaibatsu è il nome dato ai grandi gruppi finanziari prebellici che controllavano buona parte dell’economia giapponese: acciaierie, cantieri navali, miniere, banche. Sono una caratteristica dominante della storia giapponese dalla modernizzazione dell’era Meiji al 1945. Potevano essere formati da antiche e potenti famiglie, come lo zaibatsu Sumitomo, fondato dalla ononima famiglia, fornitrice di rame degli shogun, o da persone provenienti dal nulla, come lo zaibatsu Mitsubishi, creato da un intraprendente samurai di bassa casta di nome Iwasaki Yataro. Se i nomi sembrano gli stessi dei moderni keiretsu è perché le loro radici affondano proprio in questi grandi gruppi nati durante la modernizzazione del paese. Il termine zaibatsu è oggi usato in Giappone con accentazione negativa per via del loro supporto all’espansione imperiale in Asia a cominciare dall’a Prima Guerra Sino-Giapponese (1894-95)  e se ne trova poca traccia nelle storie ufficiali (shoshi) dei grandi conglomerati.[/typography]

 

La nascita di Honda Motor Co

Subito dopo la resa Toyota acquistò da Honda tutto ciò che rimaneva di Tokai Seiki per la somma di 450.000 yen. Honda passò i mesi successivi a fare poco altro che realizzare orribili bevande fatte in casa con alcool per medicazioni finché nell’estate del 1946 coll’aiuto di suo fratello Benjiro e di alcuni ex dipendenti di Tokai Seiki eresse una nuova officina sul sito della vecchia fabbrica di Yamashita. Qui, come tanti artigiani dell’immediato Dopoguerra (non solo in Giappone) tentò di realizzare una varietà di prodotti: pannelli per soffitti, vetri decorativi e macchinari tessili. Poi la rivelazione: la scoperta di un motore per radio militari lo ispirò a realizzare una semplice motocicletta. Il prototipo fu approntato a tempo di record: su questo prototipo, a differenza del popolarissimo (in Europa) Velosolex, il motore trasmetteva il moto alla ruota posteriore tramite un innovativo sistema di frizioni poi brevettato. Non solo: si poteva supplementarne la potenza pedalando o anche utilizzarlo come una semplice bicicletta. A questo punto il primo problema: anche frugando nei rottamai si scoprì presto che la quantità di motori disponibile era estremamente limitata. Honda disegnò quindi il suo primo motore: un due tempi 50cc con una caratteristica tecnica per i tempi rivoluzionaria: ammissione a dischi rotanti (1). Questo motore venne venduto ai negozi di biciclette per realizzare conversioni ma, soprattutto, venne utilizzato per la realizzazione della bicicletta motorizzata A-Type, soprannominata affettuosamente Bata-Bata, lanciata sul mercato nel novembre 1946.

La Honda A-Type del 1946, soprannominata Bata-Bata.

Il successo fu incredibile, ma Honda non era affatto soddisfatto.

L’azienda doveva affidarsi a contraenti esterni per lo 80% dei componenti utilizzati sulla Bata-Bata. Questo riduceva i profitti e il controllo della compagnia sulla qualità dei componenti: troppe volte partite intere di bielle o altre parti avevano dovuto essere rispedite al fornitore perché insoddisfacenti. Inoltre la compagnia aveva un turnover tra i dipendenti estremamente elevato: questo portava ad una cronica mancanza di manodopera altamente qualificata.

Qui l’esperienza di Honda-san nell’organizzare la Tokai Seiki durante il periodo bellico tornò estremamente utile, creando una linea di montaggio che potesse sfornare prodotti dalla qualità consistente indipendentemente dall’abilità e dall’esperienza dei lavoratori.

Nel 1948 Honda si trasferì ad un nuovo stabilimento ad Hamamatsu, organizzato secondo le idee di Honda Soichiro sulla produzione in massa da parte di manodopera non qualificata.

In questo periodo iniziò anche la produzione interna di stampi per realizzare tramite pressofusione (2) le parti in alluminio, un’impresa estremamente costosa ma che venne ripagata con una minore dipendenza dai fornitori, sprechi ridotti e maggiore controllo sulla qualità del prodotto.

Come molte altre aziende giapponesi del tempo, anche Honda Motor Co investì fortemente nella tecnologia della pressofusione come sostituto della colata in sabbia adottata fino ad allora per la realizzazione di parti d’alluminio in grande serie. I primi tentativi non furono di certo dei migliori e spesso i dipendenti erano obbligati a limare o fresare le parti prima di montarle. Per Honda-san questo era assolutamente inaccettabile e le sue sfuriate coi dipendenti sorpresi colla lima in mano sono tuttora leggendarie.

Per migliorare il controllo di qualità Honda assunse Shirai Takao, che applicò la statistica al controllo qualità: un’invenzione americana che l’Occidente dimenticò per decenni e che tuttora è alla base della leggendaria qualità costruttiva nipponica.

Nel corso del 1948 vennero progettati due nuovi prodotti: il B-Type ed il C-Type. Il B-Type era un triciclo trasporto merci che si dimostrò instabile e non superò lo stadio di prototipo. Il C-Type era invece una versione migliorata della Bata-Bata.

Note:

[typography font=”Cantarell” size=”10″ size_format=”px”]1) I motori due tempi usavano precedentemente (ed alcuni usano tuttora) l’ammissione controllata dal pistone, ovvero sia il pistone stesso “chiudeva” la luce d’ammissione. Un disegno molto semplice ma molto inefficiente, specie quando si volevano ottenere regimi di rotazione e potenze relativamente elevati. L’ammissione a dischi rotanti consente di migliorare l’efficienza e la curva d’erogazione del motore. Ad onore del vero i primi due tempi con ammissione a valvola rotante risalgono agli anni ’30 ma solo nel Dopoguerra questa soluzione divenne comune. Il fatto che sia la Bata-Bata che la Vespa siano state brevettate nel 1946 e che entrambe utilizzassero questo sistema di controllo dell’aspirazione ha ingenerato diatribe su chi sia arrivato per primo. La realtà è che sia Corradino D’Ascanio che Honda-san avevano semplicemente studiato accuratamente le soluzioni disponibili ed arrivarono alla stessa conclusione.
2)Ridotto nei più semplici termini la colata in sabbia consiste nel realizzare uno stampo con un modello la cui forma viene impressa nella sabbia. Il metallo fuso viene poi colato nello stampo così ottenuto, raffreddato e poi estratto. La pressofusione consiste invece nel realizzare uno stampo di metallo ad alta resistenza in cui viene iniettato metallo fuso ad alta pressione. I vantaggi pratici della pressofusione sulla colata in sabbia, specie dopo che furono eliminati i problemi di porosità dovuti dai gas, furono immediatamente evidenti: meno passaggi di lavorazione, maggiore qualità del prodotto finito e duranta superiore degli stampi.
Purtroppo il costo degli stampi e delle apparecchiature di iniezione e controllo è tuttora estremamente elevato. Ecco perché l’insistenza di Honda-san nel realizzare un proprio impianto di pressofusione in un periodo in cui la compagnia di certo non navigava nell’oro vennero considerati un forte rischio economico.[/typography]

 

La grande scommessa

A questo punto Honda aveva in mente di fare un balzo qualitativo, passando da biciclette motorizzate prodotte utilizzando telai realizzati da fornitori esterni ad un vero e proprio motociclo, realizzato intorno ad un telaio di progettazione e realizzazione Honda.

Questo prodotto, che ricalcava molto da vicino la prebellica (e poco nota) Miyata Asahi (1), fu il Dream D-Type, spinto da un motore due tempi 98cc di cilindrata e realizzato più come una vera e propria motocicletta che come una bicicletta motorizzata. Il pubblico rispose in modo entusiasta inondando la fabbrica di ordini.

A questo punto entra nella storia Honda l’uomo che, insieme al fondatore della compagnia ed a Shirai-san, fu l’artefice della trasformazione di Honda Motor da piccolo produttore di successo a colosso mondiale, Fujisawa Takeo. Fujisawa venne presentato ad Honda da Takeshima Hiroshi della Nakajima (ora divenuta Fuji Heavy Industries). Fujisawa veniva dal campo delle acciaierie e delle macchine utensili: non aveva un gran talento per l’innovazione e la ricerca tecnica ma questo era abbondantemente compensato dalla sua grande abilità gestionale ed un fiuto quasi sovrannaturale per gli affari.

E’ stato spesso scritto che Honda e Fujisawa si complementavano a vicenda: da una parte l’inventore autodidatta, dall’altra il genio della finanza. Certo è che Fujisawa vide immediatamente potenzialità nella compagnia e, grazie ad un prestito ottenuto dal padre, aumentò il capitale societario a due milioni di yen ed aprì un ufficio a Tokyo.

Coll’inizio della Guerra di Corea e del “mini boom” da essa ingenerato, Fujisawa acquistò una fabbrica di macchine da cucire fallita nel quartiere di Kita, Tokyo, dove sarebbero stati realizzati i telai della D-Type e dove si sarebbe proceduto all’assemblaggio finale utilizzando i motori prodotti ad Hamamatsu.

Fino a questo momento il potentissimo MITI (Ministero per il Commercio Internazionale e l’Industria) aveva prestato pochissima attenzione all’industria motociclistica giapponese, impegnato come era nel negoziare col GHQ condizioni più favorevoli per l’industria chimica e siderurgica nazionale, ma coll’avvento della Guerra di Corea e la progressiva e rapida riduzione del controllo straniero sul paese, si iniziò ad interessare anche di quelle industrie che fino allora erano state “dimenticate”. Honda ricevette dal MITI due assegni per un totale di 500.000 yen come premio per l’eccellenza conseguita nel campo della pressofusione. Con questo denaro la produzione del D-Type potè essere notevolmente incrementata.

Nel 1951 il D-Type era oramai obsoleto, surclassato dai competitori in un mercato in continuo sviluppo. Fujisawa riuscì a vincere le forti riluttanze di Honda e a convincerlo a realizzare il primo quattro tempi della compagnia: le riluttanze di Honda nascevano principalmente dai forti costi di sviluppo e di industrializzazione ma, come molte altre volte, Fujisawa si dimostrò estremamente convincente e lungimirante. (2)

Così nacque il rivoluzionario Dream E-Type del 1952: monocilindrico, 146cc di cilindrata, rivoluzionario perché utilizzava valvole in testa in un mercato in cui i quattro tempi (non solo di piccola cilindrata) utilizzavano prevalentemente le valvole laterali. Il prototipo venne utilizzato in un test sul Passo di Hakone dove, nonostante le pessime condizioni meteo, salì con una media di 70 km/h. La particolare attenzione dedicata alla realizzazione della camera di combustione dava un consumo medio di 94 km/l ed aiutava a raggiungere una potenza massima di 5,5 cavalli, il doppio dei concorrenti. Fu un successo immediato.

 

La Honda Dream E-Type del 1952

Nello stesso anno venne introdotta la bicicletta motorizzata Cub F-Type. Mentre tecnicamente non era un mezzo rivoluzionario come la E-Type, con essa la strategia di Honda iniziò a cambiare. Anziché affidarsi all’esistente network di rivenditori, Fujisawa inviò una lettera a ciascuno dei cinquantamila negozi di biciclette del Giappone invitandoli ad ordinare la nuova Cub. La lettera specificava condizioni estremamente vantaggiose per il rivenditore: il prezzo al pubblico era di 25.000 yen, una somma forte per il prodotto, ma il costo al rivenditore era di 19.000 yen, lasciando un ottimo margine. Inoltre il rivenditore non aveva obblighi d’acquisto: poteva ordinare anche una singola unità e pagarla in dodici rate mensili.

Fujisawa giunse a questa soluzione esaminando i trend nell’industria e, soprattutto, alcuni importanti cambiamenti in normativa creditizia e di pagamenti che avrebbero in seguito portato alla rovina più di un costruttore giapponese e di cui riparleremo a breve.

La Cub fu la prima Honda a venire esportata all’estero: Thailandia (che resterà sempre uno dei più importanti mercati), Grecia e Sud Africa.

Il successo fu enorme e la produzione della Cub raggiunse le 6.500 unità nell’Ottobre del 1952.

A questo punto Fujisawa e Honda decisero per un piano d’espansione estremamente ambizioso per il 1953. Le due fabbriche di Tokyo e e Yamashita vennero trasferite in nuove sedi a Saitama ed Hamamatsu rispettivamente. L’esistente stabilimento di Hamamatsu venne completamente rinnovato. Honda Soichiro si recò personalmente in Svizzera, Germania e Stati Uniti ad acquistare nuovi macchinari. La produzione di stampi per pressofusione venne aumentata immensamente  (con un enorme sforzo economico) come parte di una strategia per ridurre la dipendenza dai contraenti esterni. Due nuove linee di prodotti, le motociclette serie Benly e gli scooter Juno, vennero aggiunte a quelle già esistenti.

La rete di distribuzione venne completamente ristrutturata: come prima cosa la vendita di motori ad altri produttori come Kitagawa Motor Co (3) venne arrestata. Poi i concessionari vennero obbligati a firmare accordi in esclusiva ed a fornire forti depositi di garanzia per poter vendere i prodotti Honda.

Queste ultime decisioni vengono solitamente molto criticate perché segnarono la fine di numerosi produttori e concessionari ma Fujisawa aveva i suoi buoni motivi: innanzitutto gli investimenti effettuati per i nuovi motori quattro tempi richiedevano volumi di vendita che non potevano essere intaccati fornendo motori a prezzi “di favore” a concorrenti diretti. Inoltre Fujisawa aveva previsto (come già detto) che le nuove normative in materia di pagamento decisamente favorevoli all’acquirente/debitore avrebbero causato forti problemi ai costruttori: ragionò quindi che un concessionario legato dal doppio filo dell’esclusività e di una forte cauzione sarebbe stato meno propenso a “provare la propria fortuna” pagando in ritardo o non pagando del tutto.

Alla fine del 1953, però, questi piani d’espansione grandiosi portarono l’azienda ad un passo dalla bancarotta.

Lo scooter Juno fu un disastro di vendite, la serie Benly soffriva di problemi di carburazione e di surriscaldamento che richiesero estese campagne di richiamo e gli aggiornamenti della Dream E-Type (chiamata ora Dream 4E) fecero più male che bene. Ma questo non era nulla confrontato alla fine della Guerra di Corea, che portò alla fine del mini-boom ed al crollo delle vendite.

Mentre i magazzini si riempivano di moto invendute, i dipendenti entrarono in sciopero, poiché temevano che il bonus produttività che era stato loro promesso non sarebbe arrivato a causa dei problemi della compagnia.

Fujisawa, camminando su una corda come un equilibrista, riuscì a convincere il sindacato ad accettare un misero bonus “una tantum” di 5.000 yen “fino alla stabilizzazione della situazione economica”. Riuscì anche a convincere i fornitori a continuare a inviare le parti senza pagamenti per alcuni mesi.

Mitsubishi Bank, che aveva sempre creduto in Honda, arrivò in soccorso con un prestito d’emergenza di 200 milioni di yen. Il keiretsu Mistubishi è tuttora il primo azionista di Honda Motor Co e Mitsubishi Bank è tuttora il primo creditore di Honda.

 

Note:

[typography font=”Cantarell” size=”10″ size_format=”px”] 1)       La Miyata è un celebre produttore di biciclette, nato nel 1892 e tuttora in attività. Nel 1933 costruì una moto leggera, la Asahi appunto, un disegno estremamente avanzato per i tempi. Il motore, due tempi, 175cc di clindrata, produceva 5 cavalli, una potenza che pochi costruttori europei potevano vantare, e la costruzione era improntata alla massima leggerezza ed economicità. Scopo dichiarato di Miyata era fornire un prodotto a chi volesse una moto “vera” ma non poteva permettersi i costosi mezzi d’importazione. La moto fu soggetta ad una massacrante campagna di test che incluse l’uso sulle strade sterrate della Manciuria (occupata militarmente dal Giappone) a temperature di -20°C. Fu anche la prima moto giapponese ad essere esportata all’estero, con vendite in Messico, Perù, Brasile, India, Argentina etc. Il razionamento imposto dalla Seconda Guerra Sino-Giapponese, scoppiata nel 1937, ne decretò la fine.
2)       Si è spesso detto che Honda-san avesse un “odio patologico” nei confronti dei due tempi e le sue celebri sfuriate coi reparti di progettazione quando negli ’70 scoprì che si stavano realizzando motori due tempi da cross sono tuttora leggendari. Per lui le moto Honda dovevano tassativamente avere un motore quattro tempi, era parte dell’immagine: i due tempi potevano al massimo essere usati per biciclette motorizzate o falciaerba.
3)       Nel Giappone postbellico l’industria motociclistica (che includeva produttori di biciclette motorizzate, tricicli trasporti merci, motociclette leggere etc) raggiunse l’apice nel 1953 con più di 200 costruttori. La maggior parte di questi erano in realtà assemblatori che acquistavano tutti i componenti da terzi. Kitagawa Motor Co era la più celebre tra gli “assemblatori” e un antico partner commerciale di Honda Motor Co. La decisione di Fujisawa-san non vendere più motori venne ricevuta come uno schiaffo in faccia e ne decretò la fine.[/typography]

 

Competizioni e ascesa continua.

Nel Giappone postbellico le competizioni motociclistiche vennero fortemente sovvenzionate dal governo per due motivi.

Il primo era di utilizzarle come “vetrine” per i prodotti nazionali e promuovere la competizione tecnica tra i vari costruttori: i mezzi utilizzati erano spesso poco più che versioni più performanti di modelli di serie.

Il secondo era legato alla forte passione giapponese per le scommesse: le scommesse, pienamente legalizzate, erano un’importante fonte di finanziamento per gli enti locali e associazioni a scopo caritatevole come la Croce Rossa. Corse come la Japan Motorcycle Endurance Road Race, che si teneva su un percorso stradale di 19,2 km tra le Prefetture di Gunma e Nagano, o la Scalata del Monte Fuji, in cui i veicoli dovevano per regolamento essere completamente di serie e di proprietà del pilota, divennero eventi fondamentali del calendario giapponese, non solo agonistico.

Certo, moto Honda partecipavano in tutte queste corse con risultati più che soddisfacenti ma, come sempre, la compagnia aveva posto le sue mire molto più in alto. Appena risolta la crisi economica del 1953, venne immediatamente approntata una spedizione per partecipare ad una corsa motociclistica a Sao Paolo, in Brasile nel Febbraio 1954.

La moto era costruita intorno ad un motore E-Type moderatamente modificato con un telaio tubolare progettato ad hoc. Il risultato per un esordiente fu comunque più che accettabile: 13° posto su 25 partecipanti.

Come sempre Honda Soichiro analizzò attentamente i risultati della corsa e concluse che se i suoi prodotti commerciali erano oramai all’altezza di quelli stranieri, la tecnologia agonistica giapponese era almeno dieci anni dietro agli europei.

Questo evento è assolutamente cruciale per lo sviluppo dell’industria giapponese, come spiegherò meglio in seguito, ma spesso viene messo in ombra dal fatto che il 20 Marzo 1954 Honda inviò una lettera a tutti i dipendenti, concessionari e ai maggiori rivali annunciando che da lì a pochi anni Honda avrebbe non solo partecipato ma vinto almeno una categoria alla più importante corsa motociclistica del mondo: il Tourist Trophy dell’Isola di Man (1). Più di una persona ritenne che Honda fosse definitivamente impazzito o che stesse semplicemente sparando smargiassate per farsi pubblicità.

Determinato ad analizzare più a fondo le cause della superiorità agonistica di case come Gilera, AJS, Velocette e Moto Guzzi Honda-san nell’estate del 1954 si recò personalmente in Europa per un kengaku (2) dei principali costruttori motociclistici ed automobilistici europei e, soprattutto, dei loro reparti corse.

Visitando i reparti corse e le catene di montaggio Honda si accorse subito da dove proveniva la superiorità agonistica degli europei: differentemente dai giapponesi i mezzi da corsa erano disegnati appositamente per le competizioni ed utilizzavano componentistica dedicata, radicalmente differente da quella utilizzata sui mezzi di serie.

Honda decise quindi di acquistare quanti più campioni poteva: carburatori Dell’Orto, contagiri Smiths, accensioni Lucas, freni Fontana, catene Renold.

C’è una curiosa storiella che Honda soleva raccontare per descrivere la stupidità della burocrazia che risale a questo periodo: al ritorno in patria da questo viaggio venne fermato al check-in dell’aeroporto perché le sue valigie erano troppo pesanti, colme come erano di carburatori, catene ed altro. Informato che doveva alleggerire le valigie, Honda le aprì, iniziò ad estrarre diverse parti, infilandole nelle tasche della giacca e nella sua borsa da viaggio, fino a raggiungere il peso massimo consentito.  Mentre le sue valigie venivano imbarcate, Honda si rivolse al personale di terra e chiese loro se avevano una vaga idea di quello che stavano facendo: infatti il suo peso, inclusa tutta la mercanzia che si portava addosso, e quello delle sue valigie sommato assieme era ancora esattamente uguale a prima. Non sarebbe cambiato nulla ai fini della portata dell’aeroplano. Per un ingegnere autodidatta era assolutamente incomprensibile che si potesse ragionare così.

Tornato in Giappone e dopo aver accuratamente esaminato il suo bottino iniziò a pensare al da farsi.

Certo, copiare le parti per creare mezzi da competizione più performanti era la strada ovvia ma perché non riversare questa tecnologia anche nei mezzi di produzione per renderli più performanti (e quindi appetibili al pubblico) e per ammortizzare almeno in parte il costo elevato delle competizioni agonistiche?

Inoltre Honda-san si fermò a lungo a studiare lo stabilimento della Volkswagen a Wolfsburg, dove veniva realizzato il celebre Kafer (Maggiolino). Fu tanto impressionato dall’elevata efficienza e qualità della catena di montaggio tedesca che decise di implementare alcune delle soluzioni osservate nei suoi stabilimenti.

Una volta tornato in Giappone il primo passo fu di trovare costruttori che potessero studiare la componentistica da competizione da lui acquistata e realizzarne di simili o di utilizzarli come fonte di ispirazione per produzioni originali. Da questo punto di vista Honda Soichiro può essere considerato l’ispiratore della superlativa industria giapponese delle catene di trasmissione: infatti affidò le catene Renold che aveva portato con sé dall’Inghilterra alla Daido Kogyo di Nagoya con la raccomandazione di realizzarne versioni che potessero essere utilizzate quotidianamente e non solo nelle competizioni. Daido Kogyo è la produttrice delle celebri catene DID.

 

La Honda RC142 del 1959 priva della carenatura.

I risultati non si fecero attendere. Nel 1955 venne introdotto il nuovo modello di punta, il Dream SA, dotato di distribuzione ad alberi a camme in testa, completamente superiore al precente E-Type ed ai concorrenti. Fu un grande successo di cui Honda aveva disperatemente bisogno dopo la grande crisi del 1953 e le incertezze del 1954.

Il Dream SA venne portato all’Ascesa del Monte Fuji, piazzandosi primo, secondo e quinto: ancora una volta ricordo che questa gara era riservata a modelli completamente di serie. Honda dominò tutta la stagione finché a Novembre non apparvero le prime Yamaha alla Asama Highlands Race, dove la nuova YA-1 “Akatombo” (3) fece il vuoto nella 125, umiliando Honda, Suzuki e Marusho, i più importanti produttori giapponesi di motociclette del periodo. La grande guerra era iniziata.

In tutte queste corse nazionali venivano utilizzati mezzi di serie, completamente standard o modificati quanto consentito dal regolamento. Honda però era ben conscio che se voleva mantenere la sua promessa di gareggiare e vincere al TT doveva realizzare mezzi dedicati alle competizioni, proprio come le case europee.

Nel 1957 contattò quindi il Conte Giuseppe Boselli, patron della Mondial, che aveva appena vinto i mondiali 125 e 250, per acquistare una delle sue moto ufficiali da competizione (4). Ci sono numerose storie sul perché il Conte Boselli decise di vendere una delle moto ufficiali del 1956, una 125 Bialbero, a quello che sarebbe chiaramente divenuto un concorrente nell’immediato futuro ma pare che, molto semplicemente, avesse preso Honda-san in simpatia.

La moto arrivò in Giappone nell’autunno del 1958 e venne immediatamente esaminata a fondo.

Anziché limitarsi a copiarla, gli ingegneri Honda decisero semplicemente di studiarne le soluzioni ingegneristiche e di partire poi da zero. Il primo risultato fu la RC141, in pratica poco più di un laboratorio viaggiante, seguita a breve dalla RC142, un progetto completamente nuovo.

Fu con questa moto che Honda poté finalmente partecipare al TT nella categoria 125.

Note:

[typography font=”Cantarell” size=”10″ size_format=”px”]1)L’Isola di Man (o Mona), nel Canale d’Irlanda, è la vera e propria patria delle corse motociclistiche. Il Tourist Trophy che vi si tiene in Giugno (il mese in cui statisticamente è più bassa la possibilità di pioggia), per quanto non sia da decenni più nel calendario di competizioni mondiali e sia da anni al centro degli attacchi dei benpensanti, attira tuttora folle oceaniche che si radunano per ammirare gli specialisti inglesi ed irlandesi che vi competono. Da vedere almeno una volta nella vita.
2)Letteralmente “studiare all’estero”, è dall’era Meiji una tradizione per ingegneri ed industriali giapponesi recarsi all’estero in visita presso i “concorrenti” a studiarne prodotti e soprattutto metodi di produzione e gestione. La pratica è quasi estinta, vuoi per l’eccellenza oramai raggiunta dai produttori e dai ricercatori giapponesi, vuoi per l’efficienza delle shosha  (letteralmente “casa commerciale”) nel raccogliere dati sui concorrenti stranieri.
3)”Akatombo” significa letteralmente “Libellula Rossa”. La prima moto di Yamaha Motor Co (che abbiamo già incontrato in questa storia come Nippon Gakki) fu un’autentica rivelazione: basata su un motore di progettazione DKW (divenuto di libero dominio dopo la Guerra), aveva prestazioni superiori a qualunque concorrente commeriale e finiture finora viste solo sulle motociclette d’importazione.
4)A differenza di altri costruttori, che volevano illudere il pubblico che le moto ufficiali e clienti fossero più o meno sullo stesso piano, Mondial non provava neppure a mascherare le differenze tra i mezzi destinati al proprio team ufficiale e quelli destinati ai privati, anzi, queste differenze erano ben pubblicizzate. Questa schiettezza e l’eccellenza dimostrata nelle competizioni vinsero al marchio bolognese la stima di Honda-san.[/typography]

 

Nasce una leggenda

Nel 1959 il team Honda si imbarcò per l’Isola di Man: il team era guidato dall’ingegner Kawashima Kiyoshi e consisteva in cinque piloti, quattro giapponesi ed un americano, più meccanici, parti e ricambi per allestire un’officina autosufficiente. Una dimostrazione di grande professionalità che colpì molto gli europei.

Nel 1959 il TT si teneva sulla Clypse anziché sullo storico Mountain Circuit. (1). Comunque sia il team scoprì presto quanto è duro correre sull’Isola di Mona. Le candele perdevano gli elettrodi, i pistoni si bucavano e le catene dovevano essere continuamente sostituite perché si allungavano troppo. Inoltre le teste a quattro valvole erano in ritardo ed arrivarono per posta aerea nel corso delle prove (2).

I risultati furono più che incoraggianti per un debuttante assoluto: 6°, 7°, 8° e 10° posto più il Constructor’s Prize per la categoria 125. La vittoria non era poi così lontana e i critici delle smargiassate di Honda-san dovettero iniziare a ricredersi.

Purtroppo in questo periodo iniziarono le tipiche accuse all’industria giapponese di non fare alto che copiare i più innovativi prodotti europei: in particolar modo iniziò a circolare la voce che la RC142 non fosse altro che una copia a cilindrata ridotta della NSU Renmax 250 (3). Queste accuse sono completamente infondate, anzi: da un punto di vista squisitamente tecnico la RC142 utilizzava soluzioni anche più avanzate rispetto alla Renmax.

Nel frattempo in Giappone ferveva l’attività agonistica: si iniziò subito a preparare il TT del 1960, si preparò una versione da corsa della nuova Benly CB92 e fu ultimata la nuova RC160, 250cc di cilindrata, quattro cilindri, quattro tempi.

Questa moto fu invece soggetta ad un trattamento inverso rispetto alla RC142. Infatti l’anno dopo Benelli corse il mondiale con una 250 quattro cilindri che qualche malizioso affermò essere una copia o versione su licenza della Honda. Anche questa accusa, come la precedente, nasce da gente che non sa di cosa sta parlando. Tanto per iniziare la RC160 non corse mai fuori dal Giappone ed era praticamente ignota in Europa. Inoltre Benelli aveva già prodotto un prototipo 250 quattro cilindri agli inizi del 1940, un disegno estremamente avanzato, dotato di compressore volumetrico e raffreddamento a liquido. La guerra fermò il progetto e, quando le corse ripresero, la sovralimentazione venne proibita impedendone l’uso. Il progetto del motore però non fu completamente cestinato e venne usato come base per un’unità aspirata.

La RC160 ebbe un grande successo nelle competizioni in Giappone e questa esperienza, unitamente a quella guadagnata a Man, spinsero la compagnia a correre l’intero mondiale nelle categorie 250 e 125cc nel 1960. I risultati furnono ancora più promettenti: per quanto Carlo Ubbiali abbia vinto entrambi i campionati su MV Agusta, Honda nel campionato costruttori si piazzò al terzo posto nella 125 (dietro a MV Agusta ed MZ) ed al secondo posto nella 250, ancora dietro ad MV Agusta. Inoltre la vittoria al TT era sempre più vicina: nella 250 la RC161 occupò tutte le posizioni dal 4° al 6° posto.

 

La Honda RC160 del 1960, nella versione priva di carena utilizzata in gare su circuiti sterrati.

Il 1961 fu finalmente l’anno: vittoria nei campionati mondiali 125 e 250 e vittoria nel TT sia in 125 che in 250. Il dominio della RC162 nella 250 fu quasi imbarazzante, visto che vinse tutte le gare coll’esclusione del GP di Spagna. Fu comunque un mondiale roccambolesco. In 125 Honda vinse 8 gare su 11 ma, in mancanza di ordini di scuderia, ogni gara aveva un vincitore diverso ed Ernst Degner della DDR su MZ potè costruire un buon margine piazzandosi sempre a punti. Dopo il GP di Svezia Degner fuggì dalla DDR (4) e si trovò senza moto. La EMC gli offrì un posto ma la moto non venne consegnata in tempo per il GP d’Argentina e Tom Phillis potè così portare a casa il mondiale.

In 250 il mondiale andò a un certo Mike Hailwood. Il suo trionfo venne ricompensato in modo bizzarro da Honda… presentandogli un conto di 200 sterline per il trasporto delle sue moto dal Giappone in Europa!

 

Due Honda RC162 impegnate nel mondiale del 1961.

Sul fronte commerciale ed industriale vi furono eventi, se possibile, ancora più rivoluzionari.

Nel 1960 Fujisawa-san inviò negli Stati Uniti un dipendente Honda, Kawasahima Kihachiro, coll’esplicito compito di fondare una filiale americana. Chiamata American Honda Motor Company, diverrà a breve una delle colonne portanti della compagnia. Il C200 del 1964 divenne tanto celebre e diffuso da essere immortalato dai Beach Boys nella canzone “Little Honda”.

Nello stesso anno venne costruito a Suzuka un nuovo stabilimento ad elevata automazione, ispirato da quello della Volkswagen a Wolfsburg, il cui scopo principale era la produzione di grandi volumi per il mercato dell’esportazione.

 

Note:

 

[typography font=”Cantarell” size=”10″ size_format=”px”]1)Il TT si è corso su diversi circuiti stradali dell’Isola di Man, sempre con rotazione oraria: Gordon Bennett Trial Course (83,68 km), 1904-1905; Manx TT (64,37 km) 1906-1907; St John’s Course (10,5 km) 1907-1910; 4 inch Course (60,35 km) 1911-1914; Snaefell Mountain Course (più semplicemente The Mountain) (60,73 km) dal 1920 al 1953 e di nuovo dal 1960 al presente; Clypse Course (17,36 km) 1954-1959. Nel corso della storia il TT è stato sospeso solo tre volte: le prime due in occasione dei due conflitti mondiali, la terza in occasione dell’espidemia di afta epizootica di origine asiatica nel 2001. Questo provvedimento venne poi giudicato “eccessivo” e dettato più dal panico e da pulsioni politiche che da reali necessità sanitarie.
2)Esistono due versioni sull’arrivo delle teste per posta aerea dal Giappone nel corso delle prove. La prima è quella che ho riportato, ovvero sia un ritardo nella realizzazione delle parti. La seconda invece dice che Honda-san diede ordine di realizzare le teste a tempo di record e spedirle “ad ogni costo” dopo che Kawashima aveva comunicato che le moto necessittavano di maggiore potenza. A mio parere la prima è decisamente più attendibile.
3)Casa motoristica tedesca, celebre tanto per la collaborazione con Felix Wankel che portò alla realizzazione del motore rotativo che ne porta il nome quanto per la sua storia burrascosa. Il gruppo Volkswagen la acquistò in seguito alla crisi finanziaria seguita all’introduzione della rivoluzionaria ma commercialmente disastrosa berlina Ro 80 e fuse il marchio con Audi, DKW ed Auto Union.
4)Ernst Degner, ingegnere e pilota di punta della MZ (già due volte campione del mondo 125 col marchio della DDR), fu il protagonista di una roccambolesca fuga dalla DDR nel 1961. L’anno successivo passò alla Suzuki, che vinse il TT nella categoria 50cc nello stesso anno proprio con Degner, che contribuì attivamanente alla progettazione dei mezzi da competizione Suzuki. Tuttora si dibatte se Degner abbia portato con sè i segreti tecnici delle fortissime MZ o se fosse semplicemente un eccellente ingegnere ed un gran pilota. Il fatto che abbia vinto altri quattro mondiali con Suzuki mentre MZ iniziò a faticare colla sua partenza a mio parere depone a favore della seconda ipotesi.[/typography]

 

Il Drago contro l’Aquila ed il Leone

Nel 1960 Edward Turner, membro del consiglio d’amministrazione della BSA (1), si recò in Giappone per studiarne l’industria motociclistica.

Ciò che vide lo lasciò “sconvolto”. Fu in particolar modo colpito dagli immensi sforzi dei Giapponesi di migliorare il controllo qualità e dalle dimensioni e dall’efficienza del nuovo stabilimento Honda di Suzuka. Nessun costruttore motociclistico, in Germania, Gran Bretagna, Italia o USA operava un impianto tanto grande, efficiente e moderno, degno dei più rinomati produttori automobilistici.

A suo parere Honda stava prendendo enormi rischi dal momento che il mercato motociclistico USA era già “saturo”.

Turner però aveva fatto male i conti. Nel 1953 la Indian Motorcycle Mfg Co era fallita, lasciando Harley-Davidson (H-D) come unico grande produttore nazionale. H-D si concentrava esclusivamente su mezzi di grossa cilindrata, da 750cc in su, e poco performanti, lasciando il campo libero ai produttori d’Oltreoceano nel resto del mercato. In breve i produttori britannici, aiutati anche dalla forte svalutazione della sterlina rispetto al dollaro nel periodo Postbellico (2), riversarono i loro prodotti in massa sul mercato USA.

La Japan Machinery Federation (JMF) aveva però commissionato uno studio (che Fujisawa-san studiò accuratamente) che sottolineava come gli Inglesi non avessero affatto “saturato” il mercato come Turner credeva. I loro modelli d’esportazione coprivano quasi esclusivamente la fascia tra i 500 ed 750cc, strizzando fortemente l’occhio ai clienti che privilegiavano elevate prestazioni a scapito dell’economicità di gestione e della facilità d’uso. In sintesi c’era un enorme massa di potenziali acquirenti che attendeva solo di essere soddisfatta.

Ho già accennato alla fondazione di American Honda ma forse è il caso di spendere qualche parola in più, giusto per illustrare l’ambiente in cui i produttori giapponesi si trovavano ad operare.

Già nel 1959 Fujisawa-san aveva dato mandato ai suoi legali di presentare formale richiesta al Ministero delle Finanze per aprire una filiale americana. In questo periodo il Ministero delle Finanze controllava tutti i piani d’investimento all’estero per le società giapponesi (3).

Purtroppo nel 1957 la Toyota aveva cercato di esportare negli USA la sua automobile Toyopet Crown (4): un insuccesso clamoroso che costò alla Toyota milioni di yen ed una colossale perdita di faccia per l’industria giapponese.

Il Ministero delle Finanze decise quindi di negare ad Honda il permesso. Fortunatamente il MITI, che aveva (ed ha tuttora) un occhio di riguardo per Honda, chiese di riesaminare il caso.

L’autorizzazione venne concessa, ad una condizione: il totale dell’investimento non doveva superare i 250.000 dollari USA e Honda non poteva portare più di 110.000 dollari USA in contanti al di fuori del Giappone. Questa somma era meno del 10% di quanto Toyota aveva inizialmente investito nell’esportazione della Toyopet negli USA.

Per quanto il piano fosse originarimanete di iniziare le operazioni colla vendita delle Benly 250 e 350cc, problemi tecnici costrinsero a fermarne la commercializzazione. Fujisawa fu quindi bene o male costretto a spedire il Super Cub, 50cc di cilindrata, inizialmente giudicato troppo piccolo per il mercato d’Oltreoceano. Il successo di vendite, grazie anche ad accordi con venditori di attrezzature sportive e da campeggio, fu assolutamente incoraggiante.

 

La Honda Super Cub C100 nella versione destinata al mercato giapponese.

Nel 1962 fu introdotto il Super Cub C102 e le vendite iniziali furono molto ad sopra delle previsioni. Nel 1963 la ditta di pubblicità Grey Advertising acquistò da uno studente universitario un progetto di pubblicità per le moto Honda. Accompagnato dallo slogan “You Meet the Nicest People on a Honda”, rappresentava giovani, sorridenti e rispettabili, a bordo di Super Cub. Un’immagine lontana anni luce da quella di Harley-Davidson, incentrata su “duri” con giacche di pelle, o da quella degli Inglesi, coi loro corridori con caschetto ed occhialoni.

Kawashima fu tanto entusiasta che si accordò per utilizzarla ad una cifra enorme: 5 milioni di dollari all’anno.

Il risultato: le vendite di Honda passarono da 40.000 unità nel 1962 a 200.000 nel 1963.

Triumph tentò persino di copiare questa campagna pubblicitaria per il suo scooter Tina, uno di quei prodotti che gli appassionati della casa di Meriden dimenticherebbero volentieri.

Nel 1964 Kawashima, che oramai aveva compreso cosa voleva il pubblico americano, spese la bellezza di 300.000 dollari dell’epoca per uno spot pubblicitario televisivo durante gli Academy Awards (Oscar), facendo di Honda la prima compagnia straniera ad apparire in questo evento come sponsor.

Nel giro di una settimana gli uffici di American Honda ricevettero centinaia di richieste per l’apertura di nuovi concessionari.

Coll’arrivo delle nuove Benly e, soprattutto, della CB750 Four del 1969, Honda divenne il primo venditore di moto negli USA.

La CB750 fu l’ultimo chiodo nella bara dell’industria britannica, già devastata dalla mancanza d’investimenti, grossi problemi sindacali e da un management incompetente.

La Honda CB750 Four del 1969

Chi finora aveva acquistato Norton, Triumph, BSA iniziò a comprare giapponese. Il motivo? Ancora nel 1970 le moto inglesi mancavano di avviamento elettrico, perdevano olio, erano tecnicamente ferme agli anni ’50 e si rompevano in continuazione. La CB750 aveva avviamento elettrico, prestazioni eccellenti, elevata affidabilità e soluzioni tecniche d’avanguardia.

Il testimone di eccellenza nell’industria motociclistica passò quindi dal Vecchio Continente alla Terra del Sol Levante.

Quanto vi resterà ancora dipenderà solo dalla capacità dei loro costruttori di ricordarsi da dove vengono e la sorte toccata a chi riposò sugli allori, sicuro che nulla sarebbe cambiato.

 

 

Note:

[typography font=”Cantarell” size=”10″ size_format=”px”]1)Birmingham Small Arms, originariamente una fabbrica d’armi, iniziò a produrre motociclette nel 1903. Nota per l’eccellenza dei suoi prodotti, si estinse però come il resto dell’industria motociclistica britannica negli anni ’70.
2)La Gran Bretagna dopo la Seconda Guerra Mondiale era, di fatto, in bancarotta. Colla svalutazione della sterlina si cercava in parte di ripagare i debiti nei confronti degli USA e di aiutare l’esportazione.
3)Per aggirare questa restrizione Yamaha inizialmente “vendeva” le sue motociclette ad un esportatore che poi le “girava” ad un concessionario californiano, Cooper Motors, che agiva da importatore “non ufficiale”. Una tattica ingegnosa ma utile solo per piccoli volumi.
4)La Toyota Toyopet Crown fu la prima auto giapponese ad essere esportata negli USA. Con 2137 unità vendute tra il 1957 e il 1960 definirla un “disastro di vendite” è riduttivo. Il motivo principale di questo disastro è che l’auto riusciva ad avere consumi estremamente elevati (circa 10 km/l) pur essendo un 1400 di cilindrata, per giunta molto sottopotenziato in rapporto alla massa dell’auto. L’accelerazione nell’immissione in autostrada veniva ritenuta addirittura “pericolosa”. In seguito vennero introdotti nuovi motori, più potenti ed efficienti, ma il disastro era fatto. Toyota apprese molto da questa esperienza e la successiva auto importata negli USA, la Corona, ebbe un ottimo successo di vendite. Toyota è oggi il maggior venditore d’auto negli USA.[/typography]

 

Bibliografia:

Alexander, Jeffrey W., Japan’s Motorcycle Wars: An Industry History, Vancouver: UBC Press, 2008

Duncan, William C., US-Japan Automobile Diplomacy: A Study in Economic Confrontation, Cambridge, MA: Ballinger, 1973

Kortekaas, Joep, “Honda’ Race History: 1959 to 1967” http://www.vf750fd.com/Joep_Kortekaas/honda_race_history.html

Miyashita, Kenichi, Russell, David, Keiretsu: Inside the Hidden Japanese Conglomerates, New York: McGraw Hill, 1996

Sakiya, Tetsuo, Honda Motor: The Men, the Management, the Machines, New York: Kodansha International USA, 1982

Shook, Robert L., Honda: An American Success Story, New York: Prentice Hall, 1988

 

Su richiesta dell’autore, la distribuzione di questo documento è libera secondo licenza Creative Commons.

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2 commenti

  1. Vorrei aggiungere una cosetta. Da quando ho scritto questo pezzo sono riuscito a procurarmi le memorie di Bert Hopwood, una delle massime figure dell’industria motociclistica britannica.
    In uno dei capitoli Hopwood descrive una riunione del consiglio d’amministrazione della BSA/Triumph nel 1968 in cui uno dei Responsabili Vendite, le cui mansioni includevano anche tenersi sempre informato sui futuri piani della concorrenza, se ne uscì con questa frase “Ho da poco appreso che a breve Honda inizierà a vendere una motocicletta da 750cc di cilindrata”. Nelle pagine seguenti Hopwood descrive come queste poche parole bastarono a gettare il consiglio d’amministrazione nel panico.
    Dopo un lungo silenzio, ci si accorse che non c’era altro da opporre ad Honda che il tre cilindri 750 “il cui progetto era basato su tecnologia risalente al 1936” rimarca amaramente Hopwood. Un bicilindrico 750 venne immediatamente scartato perché i 650 allora in produzione davano già seri problemi di vibrazioni. In sintesi ci si doveva opporre alla nuovissima CB750 con un motore che Hopwood aveva progettato “a tempo perso” cinque anni prima e con soluzioni tecniche vecchie di tre decenni. 
    E i capitoli successivi sono anche peggio. Mentre la CB750 vendeva come pane caldo, BSA, Norton e soci non riuscivano neppure a ridurre l’altezza sella dei loro vecchi bicilindrici definita da Hopwood stesso come “imbarazzante”. Mentre il Giappone iniziava a sfornare moto che tutti volevano a Birmingham ci si scannava sul prototipo della 350 bicilindrica disegnata da Ed Turner, un progetto tanto scadente che non avrebbe mai dovuto essere neppure considerato per la produzione. 
    Le memorie di Hopwood danno una misura esatta di come l’industria motociclistica britannica abbia dovuto la sua fortuna più all’attività agonistica ed alla buona fortuna che alla qualità del prodotto. Una dura lezione.

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